Mortaio è parola che proviene dal latino mortarium, a propria volta da martulus = martello, alludendo ad un contenitore (caso per caso in metallo, pietra dura, marmo, vetro, porcellana…) dove si pestavano e quindi si “molivano” varie sostanze e ingredienti, fra cui spezie e frutta secca. Compagno di fatiche quotidiane, facile a pulirsi poiché non s’impregnava, antesignano del mixer, il mortaio fungeva anche da fermaporta. Il suo uso ricorreva tanto in laboratori/farmacie che in cucina. Si trattava certamente di un utensile diffuso, lo dimostrano anche vari proverbi fra cui ad esempio “pestar l’acqua nel mortaio” (nel senso di dedicarsi ad un’attività inutile) e “ogni mortaio trova il suo pestello” (nel senso che ogni donna, ancorché poco avvenente, incontra infine un uomo col quale maritarsi).
I materiali impiegati per la costruzione erano – come detto – vari (in Liguria ad esempio si finirà col privilegiare il marmo proveniente dalle vicine Alpi Apuane), ma varie erano anche le forme e le decorazioni che abbellivano l’oggetto. I più antichi ci giungono forse dall’area perso-egizia, e inizialmente “diffondono” mortai dalla circolarità pesante e un po’ sgraziata. Le anse per maneggiarli e ruotarli sono sovente teste di leone o bucrani, ovvero scheletri di teste di buoi come già – in marmo - nelle metope dei templi dorici, a ricordo del sacrificio rituale d’animali. La decorazione è incisa o nettamente rilevata, appaiono talvolta ageminature (preziosi intarsi di lamine e fili d’oro su altro metallo, battuti a freddo, con effetto policromo) che arricchiscono artisticamente l’insieme. Il Medioevo privilegia l’ottone, con ottimi risultati specialmente in tarda età, nel ‘400 si incontrano infatti snelli mortai d’area tedesca decorati con complesse, pregevoli immagini sacre. In Italia l’approccio e le forme rimangono più semplici, ma la robustezza e gli spigoli vivi restituiscono all’osservatore un’energia intensa, funzionale. Il Rinascimento rimpiazza l’ottone con le fusioni in bronzo, i rilievi sono compiutamente “scultorei”, via via il mortaio s’ingentilisce anche quanto a forme e allegorie. Ecco i fregi di putti con festoni e foglie d’acanto, ecco gli animali e gli stemmi araldici, che “blasonano” le famiglie e le collezioni più nobili. Ma l’arte non si separa dall’artigianato, questi mortai sono opera di fonditori di campane o di cannoni, fra i quali tuttavia spicca qualche nome – qualche officina - più noto e trendy d’altri: Guiduccio da Fabriano, il fiorentino Giuliano della Nave, Antonio de Vieni, Guglielmo dei Monaldi, Giuliano di Mariotto (insigni vasai di Montelupo), Crescimbene di Perugia, Stefano Parari, Antonio de Maria, Bartolomeo de’ Pesenti, il sommo Giulio Alberghetti. Verso il ‘600 s’affermano infine le forme cilindriche a bicchiere, di cui restano mirabili esempi d’area tedesca e dell’officina Enndorfer di Innsbruck (Tirolo).
In Liguria, il mortaio si lega a numerose salse, la più famosa è il pesto di basilico, pesto significa appunto pestato, implicitamente nel mortaio. Oltre a questa, s’incontrano l’agliata, il machetto, il marò, la salsa di noci e la salsa di pinoli (più rara, e solitamente levantina, la salsa di nocciole). Non di rado queste salse, sempre presenziate dall’aglio, accostavano carni e pesci lessi. Tutte le relative ricette (ingredienti, esecuzione, “segreti”) sono consultabili qui su Liguricettario.
Il pesto di basilico, “savore d’aglio”, è tuttora, forse, il più grande emblema della cucina ligure. E’ nato nella versione poi formalizzata intorno al 1830 (Ratto nella sua Cuciniera non specifica le dosi e vi aggiunge il burro), ma “riecheggia” il moretum, antica salsa aromatica dei romani contenente pecorino e aglio. Salubre, profumato, duttile, il pesto bilancia al proprio interno ingredienti che sono il vanto della ruralità locale (basilico, olio, aglio…), ma concedendosi una puntata in Emilia e in Sardegna coi due formaggi necessari alla realizzazione. Il parmigiano è quello di 24 mesi, così da poterlo bilanciare col pecorino, e la pasta sia sempre quella secca di grano duro. In origine salsa da bollito, che d’inverno doveva fare a meno del basilico, si ama leggermente più puntuto a ponente, a levante si aggiunge prescinsêua (cagliata), mentre a Sarzana (SP) sulle trenette al pesto si sovrappongono le zucchine – a rondelle - . Il cosiddetto pesto corto aggiunge una dadolata (brunoise) di pomodoro e sottrae quasi interamente l’aglio. L’azienda “Crespi & Figli” di Ceriana (IM), attiva dal 1925, ha conseguito nel 2004 – prima azienda in Italia – l’UNI 10939 per la tracciabilità dell’intera filiera. Se non disponi del mortaio, utilizza il mixer a velocità minima e intermittente, raffreddando preventivamente le lame, per non “bruciare” le nobiltà olfattive e gustative del preparato. Per altre notizie ti suggerisco anche il volume Pesto e mortà (1980) dell’insigne Aidano Schmuckher.
Il pesto, da sempre, si consuma e dà il meglio di sé con le lasagne (in dialetto mandilli = fazzoletti), con le trenette, con le trofie - che parrebbero originarie del Golfo Paradiso - , con gli gnocchi. E’ presente, di solito nella variante senza pinoli, anche (per dargli un tocco di sapore) nel minestrone di verdure cosiddetto alla genovese, che tuttavia è vanto anche dell’area di Sestri Levante (GE) e che chiede preferibilmente 4 specifici tipi di pasta: i brichetti, lo scuccussùn, i maccheroncini o le tagliatelle. Il vino in abbinamento non può che essere il Pigato, dissento dal Rossese di Albenga.
Il pesto è una ricetta ingegnosa, 7 materie prime s’amalgamano lavorate da un pestello di bosso (o comunque di legno duro) dentro un mortaio di marmo, non dimentichiamo che la Liguria di levante confina con l’area di Carrara e la cultura del riutilizzo e della parsimonia, in cucina e fuori, ha rappresentato a lungo una dote primaria. Il basilico si coglie splendidamente a Prà, sulle alture di Genova, dove sole ed aria marina lo rendono diverso da qualunque altro, mentre l’aglio proviene viceversa da Vessalico, grumo di ruralità serena adagiata lungo il corso del torrente Arroscia, fra la provincia di Savona e quella di Imperia.
Sul web, da anni, i siti in varie lingue dedicati al pesto non si contano. Ciò conforta e allarma ad un tempo, perché il pesto è ormai una produzione fra le più imitate e falsificate al mondo.
L’agliata è una semplice salsa a base d’aglio, tipica – ad esempio – del territorio di Vessalico (IM), in Valle Arroscia. E’ la più antica, se ai macelli di Soziglia (Genova) nel 1152 già accompagnava fegati e frattaglie, notoriamente deperibili. E forte tanto da far nascere in passato l’espressione “tempesta con l’aggiadda” per alludere a una tempesta terribile. Un tempo – a bordo delle navi… - si amalgamava con l’agresto (succo di uve acerbe), oggi la differenza sta tutta nell’olio. E’ perfetta in accompagnamento a verdure lesse, lumache, fegato, baccalà fritto, gallina ripiena, pane di Triora (IM). Prende il nome di “aglione” quando più piccante (condimento toscano). Nella ricetta possono entrare la cagliata, un tempo assai reperibile, o la robiola. Ad esser rigorosi, il sapore pungente impedisce un corretto matrimonio col vino. Questa salsa s’apparenta con alcune preparazioni spagnole, provenzali, siciliane, greche, turche.
Il marò di fave è una salsa ponentina (ormai introvabile) a base di fave novelle, dette dialettalmente basann-e, aglio, un poco di menta, olio e aceto, talora “coniugata” a pecorini brigaschi. Se si utilizzano fave secche decorticate, devono sobbollire in acqua e aromi per una mezz’oretta. Si fa anche di cannellini e maggiorana. Accompagna pani, baccalà e carni (la menta allevia i grassi), però occorre lasciarla un po’ liquida. La parola è dall’arabo mar-a = salsa.
Il machetto è una salsa a base di sardine intere (oggi – in genere - di acciughe), macerate 6-7 settimane in sale grosso, rimescolando ogni 2 giorni. In Liguria rappresenta quanto di più avvicinabile all’antico e “devastante” garum, sebbene il poeta Marziale nomini anche una versione più lieve, “amicorum”. Si mangiava con pane e focacce, anche con trenette ben al dente. Sta cadendo ahimé in disuso.
Infine, la salsa di pinoli è la compagna perfetta dei corzetti polceveraschi. Mentre la salsa di noci (dove la mollica bagnata nel latte compensa l’amaro dell’olio delle noci) è già nella Cuciniera del Ratto, le noci giunsero a Genova un millennio fa, dalla Persia attraverso i Balcani, oggi non possono esistere pansoti che ne facciano a meno.
In occasione dell’evento tematico organizzato da Ligucibario e da “Il pernambucco della contessa” (magnifico agriturismo sulle prime alture di Finale Ligure), la ruralista Maria Grazia Bianco, dell'Associazione Italiana Etnogastronomi, ha ripercorso e realizzato tre di queste salse, la salsa di pinoli, la salsa di noci e l’agliata, accostando pani e focacce da lei personalmente preparate con varie farine, e abbinando alle prime due salse – più delicate - un DOC Vermentino riviera ligure di ponente Fontanacota, alla terza – più aggressiva - un DOC Vermentino Colli di Luni Zangani. Grande apprezzamento da parte dei presenti, ma del resto c’era bisogno di precisarlo?!
Umberto Curti, Ligucibario & Liguvinario
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